Nell’ambito dell’esterovestizione societaria, il conferimento di immobili situati in Italia in una società con sede all’estero è indice di esterovestizione? Si, soprattutto se i soci della società estera sono italiani e si riservano il diritto di abitazione in uno di essi. Secondo la CTR dell’Emilia Romagna la sede all’estero non pone al riparo dalla contestazione di esterovestizione societaria. Questa sentenza, pur riguardando l’imposta di registro, offre lo spunto per un approfondimento sull’esterovestizione societaria.
Nel mio precedente post “Esterovestizione societaria e luogo di svolgimento dell’attività?” avevo trattato di uno dei criteri per attribuire la residenza fiscale ad una società: il luogo dove si svolge l’oggetto principale.
Esterovestizione societaria e luogo di svolgimento dell’attività
Quindi, se l’oggetto principale della società viene svolto in Italia, la società sarà fiscalmente residente nel nostro Stato.
L’oggetto principale è quell’attività che permette di realizzare lo scopo sociale.
Occorre fare attenzione!
Quindi, si deve sempre valutare se l’attività svolta in Italia è essenziale o accessoria.
Società esterovestite: residenza fiscale delle società
Un contributo per comprendere questo concetto viene dalla sentenza 861/2020 della Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna.
I giudici non sono stati chiamati a decidere, in prima battuta, sull’esterovestizione.
Dovevano decidere se applicare l’imposta di registro in misura fissa o proporzionale ad un conferimento societario.
In questa decisione hanno dovuto rispondere prima alla domanda: “Dov’è fiscalmente residente la società conferitaria?”.
La risposta a questa domanda li ha portati a ritenere che la società fosse esterovestita.
I fatti sintomatici dell’esterovestizione
Ecco i fatti sintomatici dell’esterovestizione.
Due contribuenti residenti in Italia hanno conferito dei terreni agricoli e dei fabbricati situati in Italia in una società con sede legale nel Regno Unito.
La sentenza di primo grado, favorevole ai contribuenti, riteneva che il conferimento fosse un contratto reale.
In parole semplici: i soci avevano voluto effettivamente conferire gli immobili nella società britannica.
L’appello dell’Agenzia delle Entrate viene accolto dalla Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna.
L’analisi dei fatti ha dimostrato che la società, pur avendo sede legale nel Regno Unito, non vi svolgeva alcuna attività economica.
La società inglese è stata ritenuta “una costruzione di puro artificio”.
Il conferimento era realmente avvenuto.
Tuttavia, non vi era alcuna volontà di avviare una attività economica fuori dall’Italia.
La società era uno schermo tra i contribuenti ed il Fisco italiano.
Infatti, l’utilizzo dei beni immobili è rimasto in capo ai conferenti.
Anche i debiti preesistenti sono stati saldati dai conferenti.
Questi fatti, sommati al diritto di abitazione mantenuto a favore dei conferenti, dimostravano che non vi era attività economica.
Questa è una situazione “limite”.
Non solo non vi era svolgimento nel Regno Unito dell’attività principale volta al perseguimento dell’oggetto sociale.
Non vi era affatto svolgimento di attività economica.
La società è stata costituita per garantire ai soci il godimento dei terreni e dei fabbricati.
Questo caso dimostra che:
- non bisogna essere più furbi del Fisco;
- non si deve credere alle mirabolanti promesse di un risparmio o di un profitto fiscale;
- ci si deve affidare a professionisti competenti e coscienziosi.
Sempre che, ovviamente, si vogliano dormire sonni tranquilli…
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